Gabriele Basilico: Le mie città a Palazzo Reale è un capolavoro.

Lorenzo e basta
3 min readFeb 10, 2024

Fuori piove, piove piuttosto forte e c’è anche un po’ di nebbia. Mi trovo nel pieno di uno di quei weekend d’autunno (anche se è febbraio) dove il pattern perfetto sarebbe composto da divano + stufa + film.

Ma la mia innata capacità di non saper stare fermo fa capolino e mi ricorda che…hey! Questo è l’ultimo weekend della mostra di Basilico a Milano a Palazzo Reale. Ti ricordi quella mostra che sono SEI MESI che aspetti di andare a vedere?

La mia voce interiore non lascia scampo e negli ultimi mesi ho anche iniziato ad ascoltarla quindi suvvia, cosa sarà mai un viaggio di un’ora in macchina seguito da venti minuti di metro il tutto moltiplicato per due e sotto il diluvio? Niente…appunto.

Lampugnano, metro M1, piazza del Duomo ed eccomi al cospetto di una delle basiliche più belle del mondo, che svetta perlacea contro il cielo grigio fumo della pianura lombarda. Odio profondamente Milano, ma nemmeno un acerrimo nemico della city come me può negare che abbia degli scorci notevoli.

La fila per la mostra è inesistente. Sono tutti in coda per Goya e per il museo, ma a nessuno sembra fregare niente di quel supremo artista che fu Basilico e che qui viene ricordato per i dieci anni dalla sua morte.

La mostra è in una sala interna e si articola in un percorso attraverso ampie pannellature beige che ospitano le stampe, illuminate da un cielo di piccole lampadine a LED sospese da cavi neri tesi da un lato all’altro della sala. L’effetto scenico non è male, però l’illuminazione delle fotografie non è eccezionale, anzi…i riflessi abbondano e le luci a picco creano ombre profonde sulle cornici che vanno ad erodere i margini delle fotografie.

Nella sala regna quel chiacchiericcio sommesso che tanto amo delle mostre, accogliente senza essere fastidioso e gli avventori si muovono placidi tra le stampe. Chi come semplice curioso e chi con lo sguardo indagatore che sia da fotografo a sua volta o da — in qualche modo — addetto ai lavori di urbanistica e progettazione.

Le fotografie spaziano temporalmente dai primi anni Novanta alla prima metà dei Duemila e geograficamente da Shangai a Parigi, passando per Beirut, Rio ed Ammam con divagazioni più o meno monocromatiche tra Salerno, Dallas e Berlino.

La capacità di Basilico di “fotografare il vuoto” è assoluta. Ci vogliono lunghi attimi di osservazione prima di accorgersi che la maggior parte degli scatti sono privi di presenza umana (anche se hai già letto i suoi libri e visto mille sue foto, quindi ti pensi preparato) e che quelli in cui gli esseri umani sono presenti, sono realizzati in modo che “spariscano” nella composizione e nel flusso narrativo dello scatto.

I pattern sono ovunque. Scalinate, vetrate, palazzi.

Le linee sono ovunque. Cavi elettrici, autostrade, grattacieli.

L’occhio viene sapientemente guidato attraverso i livelli della fotografia. La presenza umana è gestita con meticolosità. Gli angoli di inquadratura e le linee di composizione sono semplicemente assoluti.

Dai banks di Londra ai grattacieli di Parigi le fotografie sono presentano una armonia complessa e austera — alimentata a tratti dal bianco e nero — con guizzi di colore inaspettati (le palazzine popolari a Brescia) e scorci di una modernità architettonica già decadente.

Sono fotografie che pur — quasi totalmente — in assenza di presenza umana, ne narrano l’esistenza, l’integrazione con l’ambiente e l’impatto sui paesaggi in un modo che può essere visto come un “parallelismo urbano” con la visione (invece tutta ambientale) di un altro grande maestro come Salgado. Entrambi raccontano del rapporto tra la specie umana e gli ambienti che essa popola, ma lo fanno da posizioni e con visioni completamente differenti.

Salgado mette gli esseri umani e gli animali al centro del loro contesto di appartenenza (Genesi, Amazonia, La Mano dell’Uomo) mentre Basilico li fa scomparire da esso. Al guerriero della tribù amazzonica in posizione di combattimento nella jungla, Basilico contrappone un incrocio stradale a T completamente deserto in una località balneare d’inverno in Francia.

In tutti e due i casi l’uomo e il suo operato sono profondamente presenti nella scena, anche se non appare evidente da subito.

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Lorenzo e basta

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